Il femminicidio nell’Occidente
Pubblichiamo con estremo piacere un contributo** della psicologa e psicoterapeuta Pisana Collodi, che ha il merito di inquadrare il fenomeno del femminicidio tenendo conto del contesto sociale, economico e politico occidentali, e dei valori da esso riprodotto che, inevitabilmente, finiscono per incidere all’interno delle dinamiche relazionali sin dalla più tenera età, venendo quindi riprodotte anche all’interno della relazione di coppia. In questo senso, il merito di Collodi è quello di analizzare lo stato di salute delle relazioni in generale, e quindi di inquadrare il femminicidio nel più ampio contesto delle emozioni e del bisogno di appartenenza e legame. Che fine fanno questi, in un Occidente dove tutto è ridotto ai valori del sistema capitalista?
Riportando esempi efficaci raccolti nel suo lavoro quotidiano di psicoterapeuta e citando testi e studi fondamentali ma caduti nel dimenticatoio, Collodi ripropone qui una questione oggi più che mai attuale, già affrontata altrove ma esaminata da una prospettiva che alla psicologia integra la storia sociale: che cosa succede quando le soluzioni del sistema capitalista, i suoi valori e, soprattutto, i suoi disvalori, scavalcano il sistema patriarcale, rendendolo quasi obsoleto? Finiscono forse per sembrare (a livello individuale, sociale, e politico) una vera e propria alternativa di liberazione rispetto al patriarcato? E se così fosse, quali sono quindi le strade per comprendere, prevenire e combattere il fenomeno del femminicidio?
Potete scaricare qui il contributo in PDF
di Pisana Collodi*
Premessa
Vorrei iniziare la mia riflessione sul femminicidio partendo dagli aspetti di tale fenomeno nella realtà italiana – uomini che uccidono le compagne che li stavano lasciando; più raramente le donne che essi stessi volevano lasciare a volte uccidono i figli e spesso si suicidano – perché mi sembra che la chiave di lettura solitamente adottata per spiegare questi fatti drammatici – cioè quella di un rigurgito di un patriarcato crudele, che non perdona l’indipendenza delle donne e le uccide se non si conformano al volere degli uomini – sia inadeguata per il mondo occidentale, e rischi di offuscare l’analisi di altre influenze sociali (che in alcuni casi si sovrappongono alla mentalità patriarcale, in altri la soppiantano) a mio avviso urgenti da mettere a fuoco, rispetto ad un lavoro di prevenzione.
Il rischio, sennò, è quello di considerare il femminicidio un fenomeno astorico, identico in India, in Messico e in Europa, senza approfondire gli aspetti dell’occidente potenzialmente implicati in questi drammi.
Non è possibile infatti parlare di prevenzione se non si mettono a fuoco le coordinate sociali, culturali e psicologiche entro le quali si verificano certi fatti, siano essi disagi psichici, o delitti, o atti antisociali: si tratta di fare un lavoro critico, di riconoscimento di alienazioni e di messa a fuoco sui conflitti senza mediazione rispetto alla dipendenza, al legame e al potere, che ci permetta di riconoscere nel dramma qualcosa che ci riguarda, che ci può sfiorare, e che può essere collegato a come viviamo i rapporti, ad altri malesseri o disagi, all’aria che abbiamo respirato, ai modelli di normalità condivisi.
Comprendere non significa giustificare: si tratta però, interrogandoci sul femminicidio, di non spostare l’attenzione solo sull’alieno, sul mostro, sul lontano da noi, ma provare a mettere a fuoco le peculiarità del nostro mondo senza dare per scontato che sia il migliore e per capire quali influenze sociali e culturali, incidendo sulla storia personale, possano portare a trasformare la fine di una relazione in una strage.
Entro questo tipo di ricerca, come fu fatto da diverse ottiche di studio negli anni ’70 rispetto al disagio psichico, si tratta di individuare aspetti della nostra cultura e del modo in cui si vive che fanno da terreno per la devianza o per la sofferenza psichica.
Vorrei anche cogliere questa occasione per mettere a fuoco il rischio legato all’uso indiscriminato del termine “femminicidio”: analizzando il tema così come viene presentato e trattato dai mass media, ho avuto varie volte l’impressione di essere di fronte ad una parola contenitore entro la quale vengono messe situazioni disparate, unificando sotto un’unica etichetta storie non comparabili. Togliendo spazio, ancora una volta, a qualunque riflessione su come si vive in Occidente, sulle nostre forme di devianza e di disagio. Faccio riferimento ad un sito del Corriere della Sera (la 27° ora) consultato in questi mesi (fine 2016, ndr), che riporta i “numeri” del femminicidio, allegando alle foto delle donne uccise un breve riassunto delle circostanze della loro morte. All’inizio del sito, un trafiletto recita: “Uccise. Da mariti, fidanzati, spasimanti… Ma anche vittime di rapinatori o di uomini semplicemente violenti, anche per motivi futili. Avremmo voluto un anno senza femminicidi. Non è così. A ciascuna delle donne uccise dedichiamo un ricordo che per quanto breve servirà a non dimenticare i loro volti, le loro storie. In queste schede noi le raccontiamo tutte: le vittime di qualcosa che gli assassini (e troppo spesso anche loro) si ostinano a chiamare amore ma anche le altre, tutte le altre uccise. Ogni piccolo racconto è una vita perduta. Sotto i loro volti le scritte rosse dicono che è stato un femminicidio, quelle nere indicano che è stato altro.”
Approfondendo le storie segnate in rosso, risultano molte donne uccise alla fine di una relazione da parte di uomini che non accettavano la separazione, molti dei quali si sono uccisi a loro volta e che, alcune volte, hanno ucciso i figli. Altre storie sono di tutt’altro segno: omicidi-suicidi di coniugi anziani, devastati da un male incurabile di uno dei due; uccisione di donne da parte dei figli o figlie psicotici e chiusi da anni in casa con loro; uccisioni per mano di parenti o dipendenti legate a liti annose per questioni economiche; stragi familiari collegate a debiti o all’invalidità di un figlio o di un coniuge.
Rispetto a queste altre storie, la sottolineatura dell’amore malato presente nel trafiletto e in svariati articoli o commenti televisivi suona come una semplificazione terribile, un’occasione mancata per riflettere sui disagi, canalizzando tutti i problemi nella relazione o, in asse con la tendenza del mondo occidentale (in primis attraverso i suoi tecnici: vedi DSM), nell’uso di un’etichetta che impedisce una seria messa in discussione di come si vive.
Riguardo al femminicidio in Occidente ritengo dunque che vi possa essere il rischio di una doppia mistificazione: l’una legata all’uso della parola contenitore che occulta altri disagi, l’altra visibile nel designare l’“amore malato” o la relazione duale come unica causa, senza considerare né tantomeno spiegare che “malato” o “sano”, “relazione”, “amore” o “coppia” sono istanze che risentono della messa in forma della cultura, della “normalità”, e quindi anche degli aspetti alienanti o disumani di queste ultime.
Fermo restando il rischio sopra nominato – cioè che il termine “femminicidio” diventi una parola-contenitore – nella mia riflessione proverò ad approfondire il modo peculiare attuale di vivere e di dare significato alla relazione e al legame, e quindi anche alla separazione e alla perdita.
L’ipotesi di fondo è che nella normalità dell’Occidente la cultura del legame e il riconoscimento del bisogno di appartenenza siano impoveriti e devastati dal neoliberismo, che ha come punto di riferimento il self-made man (senza emozioni e che non ha bisogno di nessuno) e che ha rarefatto le occasioni reali di inserimento sociale, nonché resi ipertrofici da come si vive.
Infatti, in assenza di un terreno dove sperimentarsi ed essere riconosciuti, il coltivare i sentimenti entro una cultura che demonizza la dipendenza ed esalta l’autosufficienza finisce per fare della coppia un ambito sovraccarico di ansia da prestazione, un banco di prova dove canalizzare il successo e la performance (gli anniversari di San Valentino sono diventati per gli adolescenti, date terribilmente importanti, da celebrare con profusione di mezzi, che tu li abbia o no) nonché luogo idealizzato dove riversare un’affettività sempre più ambivalente e ingorgata, perché esclusa in tanti ambiti dal diktat dell’autosufficienza e della diffidenza diffusa verso il prossimo; un’affettività gravata dalla vergogna di essere “deboli” o “sottomessi” se ci si mostra coinvolti o dipendenti e dalla paura di essere “fregati”.
Mi sembra evidente che ad essere distruttivi non siano tanto i sentimenti, quanto i modelli di normalità che li sovrastano; tornando sul tema dell’“amore malato” mi chiedo se, a renderlo tale, non sia anche la crescente aziendalizzazione della vita: mostrarsi forti, autosufficienti, indipendenti e potenti economicamente sembra essere il leitmotiv del dover-essere attuale, che da anni investe uomini e donne (e anche i bambini), mettendo sotto una luce sinistra tutti gli aspetti umani – il sogno, la fantasia, l’emotività, il bisogno di legame, la sensibilità – incompatibili con tale dover-essere.
Questo modello di normalità, che altrove ho definito come delle tre A (autonomo, autosufficiente, anaffettivo), prescrivendo nei contesti e nelle relazioni private un self control totale e anestesia emotiva produce – tra gli altri – due effetti che si alimentano a vicenda: la fobia rispetto al bisogno di legame (della dipendenza, della mancanza dell’altro, del dolore delle separazioni) e la fobia del conflitto (del disordine, della disparità, del dissenso), venendo così intensificati nella psiche due miti micidiali, ma funzionali ad un mondo senza diritti: l’autosufficienza e l’armonia. Ne deriva l’impossibilità di fare i conti con il dolore e con la rabbia rimanendo integri, senza finire per annientare l’altro o sé stessi.
C’è da chiedersi infatti, data la diffusione di questa mentalità, come sia possibile accettare perdite e delusioni collegate inevitabilmente ai rapporti sentimentali: considerando la separazione come una perdita, la mia ipotesi è che, date queste premesse, l’elaborazione del lutto (di un abbandono o di un divorzio) – cioè la possibilità, indicata da Ernesto De Martino, di “fare morire i morti”, piangendoli con il sostegno della cultura, nella valorizzazione del rapporto (anche se è finito) – sia difficilissima e, in alcuni casi, impossibile: sia perché soppiantata da una rabbia che non riesce ad evolversi perché scissa dal bisogno di legame (di cui è una parte, come mostrano i diversi studi sull’attaccamento), sia perché indirizzata esclusivamente nella competizione/sopraffazione dell’altro, per negare la propria “debolezza”.
In questa ottica, per dare un contributo “etnico” alla lettura del femminicidio in Europa senza chiamare in causa solo il patriarcato metterò l’accento sulla perdita, nel mondo occidentale, della dignità del bisogno di legame, quindi della capacità di elaborare gli abbandoni, e sull’introiezione di contenuti neoliberisti nella soggettività che implicano l’adozione di un concetto particolare di forza (soldi, prestazione, autosufficienza, potere) e il fantasma della debolezza: sofferenza, impotenza, bisogno di relazione. Contenuti che, paradossalmente, aumentano il loro fascino tanto più le condizioni esterne sono precarie.
Qualche riflessione sulla normalità dell’Occidente
La normalità non è universale, ma legata ai contesti storici entro cui si produce, e ha la funzione di stabilizzare la cultura di riferimento; la sofferenza o la devianza sono comunque collegate alla normalità, sia come protesta (in quanto messaggio sull’invivibilità di certe condizioni), sia come caricatura iperbolica; queste acquisizioni delle scienze sociali, con la possibile implicazione di uno sguardo critico sugli stili di vita, sono state accantonate a partire dagli anni ’80 a causa dell’impostazione sempre più organicista della psichiatria, tendente a riportare il disagio a cause fisiche, e dall’accento messo sullo sviluppo economico come garanzia di felicità.
Entrambe queste modalità, l’una proponendo la scorciatoia farmacologia senza mai fermarsi sui significati esistenziali che la sofferenza porta con sé, l’altra ipertrofizzando l’avere rispetto all’essere (vedi Erich Fromm) hanno sicuramente inciso sul modo di leggere e di vivere il disagio nel mondo occidentale, perché hanno eliminato l’analisi delle influenze sociali sulla vita.
Come è stato messo in evidenza negli ultimi anni, soprattutto da sociologi e storici uniti dal filo rosso della messa a fuoco sui danni del neoliberismo sulla psiche, le dimensioni sociali modellano la soggettività; ad esempio si vedano i lavori di Piero Bevilacqua sull’impoverimento affettivo e la perdita di relazioni, soppiantate dalla competizione; gli scritti di Baumann sul consumismo, anche sentimentale; il lavoro di Wilkinson e Pickett dove vari indici di disagio psicosociale sono messi in rapporto con la disuguaglianza e la perdita di senso di comunità.
Pur appartenendo a impostazioni teoriche diverse, da queste letture emerge il senso di una mutazione antropologica inquietante: la logica del profitto e dell’ascesa sociale, penetrando nei rapporti, li distrugge, impronta la soggettività con la sua ideologia di indurimento emotivo, investe le relazioni (anche quelle più intime e private e fin dalla più tenera età) di contenuti prestazionali privando ad esempio anche i bambini della gratuità del sogno e dell’ozio, per renderli sempre più performativi ed in gara, rendendo i rapporti sentimentali sempre più simili a rapporti di potere, con un vincente e un perdente che, di solito, è quello che si mostra inopportunamente bisognoso.
Ne deriva la condivisione, a livello della mentalità sociale di un ideale dell’io particolare: autonomo e anaffettivo.
Autonomia intesa – come ha sottolineato Rita D’Amico, in un bel testo sulle donne – prima di tutto come autosufficienza: non aver bisogno di nessuno, farsi i propri interessi, non lasciarsi influenzare dagli altri; poi come anaffettività, il che porta a percepire le emozioni come squilibri vergognosi, l’altro come un potenziale nemico o invasore da cui difendersi.
Il modello dell’Autonomia/Autosufficienza/Anaffettività è pervasivo: è sempre più frequente, nel mio lavoro, incontrare storie dove predominano la vergogna di chiedere, l’orrore verso la fragilità, la presa di distanza dalle emozioni proprie e altrui, la retorica del vincente e del perdente, del “sottone” (come i giovani designano il partner più innamorato) o dello “sfigato”.
Qualche esempio può servire.
Dopo una depressione grave, che l’ha esclusa dal mondo per svariati mesi, Maria, tornata a scuola, si innamora ricambiata di un compagno. Il rapporto inizia con estrema fatica: entrambi hanno talmente paura di soffrire che passano più tempo a difendersi che a conoscersi. Dopo una settimana, Maria lascia il ragazzo. “Avevo troppa paura che mi lasciasse lui, non volevo diventare uno zerbino”, mi confida.
Giacomo, dopo un’infanzia sofferente, segnata da una malattia invalidante che ha colpito suo padre, a 18 anni si innamora di una ragazza del nord Italia. Programma un incontro a Venezia, mettendo in croce i genitori (che non sono ricchi), per avere soldi a sufficienza per l’albergo, il ristorante, le orchidee da offrire alla ragazza: tutto deve essere perfetto, grandioso, totalmente fuori dalla sua realtà concreta di studente giovanissimo e senza reddito.
Paradossalmente, più cresce l’angoscia per la precarietà, più aumenta il miraggio dell’autosufficienza declinata sia sul piano umano (non avere bisogno di nessuno), che su quello economico (essere potenti perché ricchi); più le condizioni sono incerte, più gli standard della normalità propongono l’ascesa sociale come unico modo di inclusione: tra i bambini delle elementari è frequente prendersi in giro per la mancanza di capi firmati, attaccando chi non possiede certe scarpe o magliette di marca.
Mi sembra evidente che le condizioni in cui viviamo siano dominate più dalla dimensione del neoliberismo che da quella del patriarcato: sono infatti più esposte ad un potere anomico, insidioso e manipolatorio, che ad un potere gerarchico, nonché desertificate rispetto al bisogno di negoziazione di doveri e diritti, vuote rispetto alla protesta e alla solidarietà.
Ritengo che questi aspetti alimentino sia una rabbia diffusa che l’angoscia per la precarietà effettiva in cui si vive, e che tali sentimenti si congelino indirizzando il malessere nel conformismo cieco e la rabbia esclusivamente nella competizione o sopraffazione.
In quest’ottica, la sopraffazione non è tanto quella ad opera di un “padre padrone” patriarcale, quanto si collega, a mio avviso, con la rabbia per la perdita di un potere contrattuale reale e la sostituzione di questo con pratiche di dominio.
Riporto, a questo proposito, una citazione interessante di Luigi Anepeta, psichiatra critico: “Ci si può chiedere giustamente come e perché questa logica competitiva sia giunta a impregnare, al di là della vita pubblica, al di là della sfera del cittadino, anche la vita privata, i rapporti familiari, gli affetti. Il discorso a questo punto diventa complesso e non può essere esaurito. Basta dire che l’affettività nel suo complesso, nel corso degli ultimi decenni, si è andata sempre più complicando per via di una logica ad essa estranea: la logica del potere. Tale logica ha un’immediata comprensibilità, nel senso che essa, che mira a far sì che l’individuo mantenga una sua volontà individuale differenziata dall’altro con cui è in rapporto, mira a scongiurare il fantasma intollerabile per ogni essere umano di finire preda della volontà altrui. Ma, via via che questa logica si è venuta esasperando, per via del fatto che la nostra società, formalmente incentrata sui diritti individuali, in realtà è una delle società più manipolatorie che siano mai esistite, essa, a livello individuale, è divenuta ossessiva. L’affermazione della volontà individuale, che viene sempre più avvertita come minacciata dalla volontà altrui, necessariamente, e nonostante gli intenti difensivi, si traduce in una tendenza sistematica, che diventa reciproca, alla sopraffazione. Se ciò non appare evidente immediatamente, è perché la lotta per assicurarsi il potere, e al limite il dominio completo sulla volontà altrui, avviene molto spesso su di un registro inconscio, ed è mascherata dall’affettività che spesso è autentica.” (L. Anepeta. Psicopatologia e storia sociale, www.nilalienum.it) .
Va quindi messo a fuoco, per comprendere alcuni aspetti della psicologia contemporanea, il ruolo della perdita del potere di negoziazione con la realtà e con l’altro; perdita sovraccaricata, dall’interno, dalla fobia delle emozioni (considerate da “poveracci”) che impedisce sia la protesta che le richieste, portando a re-inghiottire le tensioni, impedendone i conflitti, quindi bloccandone il potenziale evolutivo.
L’aziendalizzazione della vita – anche di quella privata – ha investito drammaticamente anche le agenzie tradizionalmente deputate alla cura e alla crescita (ad esempio l’istruzione o la salute, superaziendalizzate anch’esse). Deprivando la maggioranza delle persone rispetto ai diritti fondamentali, ha messo in forma dipendenza e indipendenza, svalorizzando la prima e esaltando la seconda intesa come autosufficienza; ciò non può, a mio avviso, non avere peso nei fenomeni di disagio o di devianza: al centro di tale processo metterei la perdita del riconoscimento del bisogno di relazione, la velata considerazione dell’inopportunità dei legami (soprattutto di quelli stretti), visti forse come infantilismo, o turbativa dell’ordine. In una scuola del mio quartiere, ad esempio, non si mettono nella stessa classe bambini che provengono dallo stesso asilo per evitare rapporti troppo stretti tra loro; in un’altra è vietato prestarsi le penne; recentemente, le insegnanti nel nord Italia che avevano ceduto a due bambini i loro buoni mensa hanno rischiato l’incarico).
Ne deriva la perdita della dimensione della cura dell’altro e della responsabilità umana, attraverso la proscrizione o la ridicolizzazione in entrambi i sessi di qualunque comportamento di accudimento o presa in carico: ritengo che in Occidente la divisione di ruoli del patriarcato tra l’oblatività femminile e la normatività maschile sia stata ampiamente superata dal livellamento – operato dal mercato e ad esso funzionale – di uomini e donne su un’ideale di autonomia sempre più simile all’autosufficienza, ideale depurato dall’identificazione con l’altro, accuratamente calcolante costi e benefici anche nelle relazioni fondamentali. Lo mostrano in modo inequivocabile le varie politiche sanitarie europee, e, da tempo, la chiusura dei confini ai profughi, e lo anche constato in terapia, dove gli aspetti più conflittuali sono i legami e l’identificazione con gli altri – quest’ultima spesso vanamente combattuta dalle persone sensibili come debolezza inaccettabile e vergognosa.
Questi aspetti, a livello micro e macro-sociale, comportano l’alienazione del bisogno di appartenenza che, come vediamo dalla cronaca e dalla politica, si particolarizza entro confini rigidi attraverso la chiusura e il rifiuto dell’estraneo, indirizzando i sentimenti di protesta esclusivamente nella persecuzione del capro espiatorio: ne deriva una modalità di legame senza l’ossigeno dello scambio con l’esterno, tendente a canalizzarsi nella relazione idealizzata e al tempo stesso deprivata della fiducia e del conflitto; tuttavia, un legame idealizzato tende inevitabilmente a trasformarsi nel suo contrario: i conflitti accantonati possono caricarsi di una rabbia disumanizzata che non riconosce più avversari, ma solo nemici.
Ritengo che tali aspetti, visibili nel nostro mondo a vari livelli, strutturino anche la vita delle coppie: sempre più segnate dal mito dell’armonia e dalla fobia del conflitto, condannate così dall’impoverimento affettivo generale a cercare esclusivamente nella relazione sentimentale la realizzazione del bisogno di legame, impedite dal mito dell’autosufficienza e dell’anestesia a fare i conti con la rabbia, la disillusione, la debolezza: temi essenziali nella crescita dell’autenticità.
Parallelamente, la coppia diventa l’ambito esclusivo della performance e del successo, anche economico, la palestra dove esibire i muscoli del potere: spendere, comprare, mostrarsi all’altezza. Testimoni ne sono, a mio avviso , il revival di tradizionalismo e mercificazione che investe, da anni, la vita delle ragazze e dei ragazzi, cancellando o facendo scolorire gli ideali della pari dignità.
Si tratta quindi, interrogandoci sul disagio e sulla devianza relativi al mondo occidentale, di fare i conti con la tematica dell’ascesa sociale, con il suo corollario di angosce e umiliazioni entro cui l’elaborazione dei sentimenti, l’affrontare le liti, il piangere sulle delusioni è una perdita di tempo inammissibile, perché ci si può attaccare agli oggetti, ma mai alle persone, perché l’homus oeconomicus (e anche la donna) è autosufficiente, pensa ai suoi affari e non ha bisogno di nessuno.
Per questi motivi ritengo fuorviante, nell’analisi del tema del femminicidio, mettere sullo stesso piano ciò che avviene in India o in Messico con quello che avviene in Italia o nel mondo occidentale; fare di tutta l’erba un fascio, in nome ad esempio del patriarcato o del sessismo, oppure della possessività o del delitto di genere. Aspetti certamente importanti in molti contesti e che echeggiano anche nel nostro, ma che, se considerati come uniche cause, rischiano di offuscare la specificità del disagio dell’Occidente e di portare ancora acqua al mulino del Progresso e dello Sviluppo occidentali contrapposti all’arretratezza del resto del mondo.
Distacco, perdita, elaborazione dei lutti: il femminicidio come morte del bisogno di legame/appartenenza.
Ritengo che, nel mondo occidentale, alla base del femminicidio possa esservi una sorta di cortocircuito, in cui ad essere condannata a morte non siano l’indipendenza o la libertà delle donne, ma la dipendenza e il bisogno di legame, la possibilità di divergere e di confliggere, divenute esplosive perché inaccettabili in base ai modelli di normalità sopra descritta nonché ingorgate a causa del loro essere confinate unicamente nella coppia. Quest’ultimo aspetto, in apparente contraddizione con quanto detto finora, va spiegato.
Non vi sono dubbi, da decenni di studi e di ricerche, a iniziare dalla psicoanalisi delle relazioni oggettuali (la Teoria dell’attaccamento, le ricerche sui neonati ospedalizzati), su come la relazione con l’altro, il legame e l’affettività siano fattori strutturanti l’identità che, se messi a rischio nell’infanzia da separazioni prolungate e senza la sostituzione con altre figure significative, possono finire col minacciare la sopravvivenza psichica e fisica. Tale aspetto, massimo in età evolutiva, non termina con l’età adulta durante la quale, oltre ad intensificarsi in situazioni di stress o di minaccia (malattie, lutti, emigrazioni), il bisogno di appartenenza/legame richiede comunque una realizzazione non univoca, un indirizzarsi variegato nei settori significativi delle relazioni umane: l’amore, certo; ma anche l’amicizia o la cultura, e i rapporti di lavoro intesi anche come trasmissione o ricezione di competenze, come possibilità di discussione e confronto, condivisione di interessi, lotte politiche o sociali.
Questa realizzazione delle varie sfaccettature del bisogno di appartenenza appare sempre più a rischio, nel mondo occidentale; sia per l’organizzazione esterna, a causa dei ritmi sempre più affannosi e la perdita quasi totale del tempo libero e vuoto; sia per quella interiore, riconducibile alla concezione di fondo che la vita è una lotta e non bisogna fidarsi di nessuno, ed è comunque disdicevole cercare gli altri. Ciò non permette un dispiegarsi ossigenato del bisogno di appartenenza, ed è possibile che questo si canalizzi esclusivamente nel privato familiare, risultando sempre soffocato e insoddisfatto. E’ giocoforza che in queste situazioni, visto il significato sociale tutto sommato negativo dato al bisogno di legame e alla sensibilità, e il restringersi delle occasioni per viverlo pienamente, all’interno della personalità si verifichi un’alienazione di tale bisogno, che inizia ad essere combattuto anche da dentro, come fosse un parente povero di cui ci vergogniamo. Contemporaneamente, come accade quando un bisogno viene negato o ridicolizzato, vi è un’intensificazione stravolta, drammatizzata.
Quindi alla frustrazione del bisogno di appartenenza, collegata come abbiamo visto agli stili di vita, si aggiunge l’alienazione: in nome di modelli normativi interiorizzati che prescrivono durezza, anestesia affettiva, aggressività come segni di adeguatezza sociale, l’Io non riconosce più tale bisogno come legittimo, ma inizia a combatterlo e lo disprezza, rendendolo, di conseguenza, sempre più angosciato e inutilizzabile.
Un esempio può servire. Se un bambino di dieci anni, il pomeriggio dopo la scuola è solo in casa in attesa che i genitori tornino dal lavoro, sentendo la loro mancanza può stare male, certo, ma in modo sintonico con il suo stesso bisogno. Fantasticando, ad esempio, cose da fare o da dire al ritorno dei genitori: c’è la mancanza, ma non c’è il conflitto con sé stesso. Se però, lo stesso bambino, avvertendo l’ansia, inizia a sentirsi stupido, o bamboccio, o “femminuccia” il bisogno diventa conflittuale: è impossibile allearcisi e l’angoscia aumenta, insieme all’odio per sé stesso e per i genitori che non tornano.
Questi tratti, con il loro insieme di rabbia, inadeguatezza, frustrazione, ambivalenza fanno parte della reazione all’abbandono e alla mancanza: vanno evidentemente elaborati e trasformati, e l’unico modo possibile è attraverso il sostegno e l’accompagnamento umano, sullo sfondo di una cultura che, valorizzando il legame, ne faciliti la trasformazione e che ne permetta quando serve la risoluzione. Ciò che ci consente di elaborare una perdita, temporanea o definitiva, una morte, ma anche una separazione o un’emigrazione, un distacco dai nostri cari o la perdita delle nostre radici è la possibilità di compiere quello che viene definito il lavoro del cordoglio: il mantenersi vivo della speranza di relazione, dentro e attorno a noi, il poter restare in contatto con il proprio bisogno di legame/appartenenza, riconoscendolo nella memoria e nella nostalgia, utilizzandolo nella ricerca del conforto, anche rituale e sociale e riattualizzandolo, quando il dolore inizia ad essere elaborato, nella ricerca di nuovi investimenti affettivi.
Questo processo, come ho cercato di spiegare, può essere fortemente ostacolato dal mix attuale dei miti dell’autosufficienza e dell’ipertrofia della coppia come unico ambito permesso di realizzazione affettiva: ne è una testimonianza la trasformazione di molti divorzi in una escalation giudiziale di conflittualità sclerotizzate, che possono durare anche anni, intrappolando gli ex coniugi in una spirale eterna di processi, perizie, ecc., come se i coniugi che si separano non potessero in nessun modo vivere il dolore (quindi poterlo trasformare e alla fine superarlo), poiché è un dolore a cui si accompagna esclusivamente un marchio di infamia e di vergogna intollerabile da negare subito, indirizzandolo in un’azione di guerra: è evidente l’impossibilità di elaborazione non cruenta delle separazioni, a mio avviso da mettere in relazione con il restringimento progressivo del bisogno di legame, con il suo incanalamento in confini sempre più ristretti.
In questo senso, dalle ricerche sulle scimmie, sulla loro reazione alla morte di un congiunto, ci vengono delle riflessioni importanti. Piero Coppo cita svariate ricerche e osservazioni sul campo che mettono a fuoco come l’intensità della risposta alla perdita della madre nelle giovani scimmie possa variare a seconda dell’organizzazione dei gruppi di riferimento: se sono ad organizzazione sociale “edonica” – rilassata, poco competitiva, con i cuccioli gestiti da tutte le femmine – o ad organizzazione “agonistica”, molto gerarchizzata e competitiva. È indicativo che “il lutto, la perdita, hanno dunque effetti meno gravi nei gruppi ad organizzazione sociale “edonica” dove i legami di dipendenza e affettivi sono molto più diffusi e meno esclusivi” (P. Coppo, Le ragioni del dolore, pag 133).
Da questo esempio emerge a mio avviso un altro spunto di riflessione: un lutto o una separazione sono strazianti perché si perde qualcuno di insostituibile, ma possono essere elaborati e superati se i sentimenti legati agli affetti circolano e hanno libera cittadinanza, potendo essere rappresentati e incorporati da diversi agenti della scena sociale.
Non si dà, nelle storie umane, elaborazione del lutto senza sostegno sociale e culturale. Come ha mostrato Ernesto De Martino mettendo al centro del rischio provocato dalla morte (così come dagli eventi che ci passano sopra, nell’impotenza di fare qualcosa per fermarli) il tema della perdita della presenza, l’evento luttuoso viene “oltrepassato” attraverso la protezione della cultura e degli altri, verso l’accettazione. Se questo viene a mancare: “[…] il “far morire i morti” in noi, che è un faticoso processo interiore e ideale, si può manifestare nella modalità più impropria, cioè nell’aggressività contro il cadavere, o nel bisogno di vendicare il morto con una nuova uccisione operata su altri, o con l’insorgenza di un indiscriminato furore distruttivo […]” (E. De Martino, Morte e pianto rituale, 1958).
Ma se la mentalità di riferimento è sempre più cinica e asettica e il processo di disumanizzazione va avanti, la funzione protettiva della cultura si deteriora o finisce per saltare completamente, come si evince dagli episodi di cronaca, e non solo rispetto ai femminicidi.
Personalmente, anche sulla base di ciò che osservo durante le psicoterapie con donne e uomini rispetto alla capacità, sempre più in declino, di maneggiare debolezze e dipendenze, cercare e offrire solidarietà, riconoscere nelle crisi un senso (declino contrapposto alla condivisione sempre più diffusa e inquietante di un ideale dell’Io basato sulla forza, il potere, l’autosufficienza dove l’Altro è, il più delle volte, un nemico o un invasore), ritengo che nei casi di femminicidio accaduti in Italia negli ultimi anni possa entrare la perdita di riconoscimento dei nostri bisogni di legame, dell’accettazione dignitosa della nostra precarietà esistenziale e della permanenza di legittimità di tali aspetti, anche quando si viene rifiutati o abbandonati.
Una parte della popolazione, rispetto al modello di normalità sopra descritto, lo rifiuta più o meno consapevolmente e, spesso, si autoesclude dal mondo sociale come unica via per preservare la propria sensibilità; una parte evidentemente lo introietta, facendo della sopraffazione una condotta di vita. La distruzione dei legami e delle persone e l’autodistruzione di sé, evidenti nei femminicidi, rappresentano a mio avviso quello che George Devereux definisce come “comportamento sociale antisociale”: una caricatura atroce della legge del più forte, un “manifesto” sull’impossibilità della vita sotto tale legge.
Riferimenti bibliografici
Luigi Anepeta sito internet www.nilalienum.it, “Miserie della neopsichiatria”, Franco Angeli 2001.
Zygmunt Bayman, “Amore liquido”, Laterza 2006.
Piero Bevilacqua, “Miseria dello sviluppo “, Laterza 2009.
Pisana Collodi, “La normalità dell’handicap”, Cisu 2008.
Piero Coppo, “Le ragioni del dolore”, Bollati Boringhieri 2005.
Rita D’Amico, Franca Bimbi ,“Sguardi differenti”, Franco Angeli 2002.
Ernesto De Martino, “Morte e pianto rituale nel mondo antico”, Bollati Boringhieri 2008.
George Devereux , “Saggi di etnopsichiatria generale”, Armando editore 2007.
Erich Fromm ,“Avere o essere?”, Mondadori 2001.
- Wilkinson, K. Pickett, “La misura dell’anima”, Feltrinelli 2012.
[*] Pisana Collodi è psicologa e psicoterapeuta ad orientamento dinamico. È autrice de La normalità dell’handicap, Cisu, 2008.
[**] Il documento è stato presentato per la prima volta al convegno “Donna, istruzioni per il non – uso” organizzato da Amnesty International ad Ostia. nel marzo 2017 presso la bibiloteca Elsa Morante.