Il nostro intervento alla Festa Unità di Classe (1-3 settembre) a Firenze
Per una tendenza classista e rivoluzionaria nel movimento femminista
Testo dell’intervento del Collettivo alla Festa dell’Unità di Classe.
A breve pubblicheremo anche i video della serata.
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Ciao compagni e compagne, mi chiamo Michela e faccio parte del collettivo femminista rivoluzionario. Il nostro è un collettivo appena nato e attivo principalmente in Romagna, ma anche se a piccole dimensioni è nato su una solida base programmatica e soprattutto sulla pressante esigenza di coniugare il femminismo alla lotta di classe, che è il tema del nostro dibattito di oggi
Il fenomeno di non una di meno ha avuto il merito di portare in piazza tante donne e di rimettere sui giornali alcuni temi importanti, tuttavia per permangono numerose criticità. Riteniamo che le rivendicazioni femminili non possano essere disgiunte dalle rivendicazioni di classe.
Non si tratta di un dogma astratto o di una convinzione teorica. È essere realisti. Quello che è utopico è chiedere al sistema che genera il patriarcato di riformare se stesso o aspetti di sé, che sono in realtà alle sue fondamenta.
Ho recentemente avuto il privilegio di seguire la vertenza dei lavoratori Ferrari in agitazione davanti alla Marcegaglia di Ravenna, vertenza conclusasi con una vittoria dei lavoratori proprio ieri. La lotta si fa così. Si picchetta, si presidia, si protesta, si bloccano le merci. Si colpisce il capitale dove fa male, nel portafoglio. Siamo per questo economiciste? Lo rivendichiamo senz’altro. Tutte le altre strade “non economiciste” le abbiamo già provate e sono fallite. Non possiamo continuare a riproporre un modello di femminismo fallimentare. Il femminismo disgiunto dalla lotta di classe, il femminismo delle rivendicazioni parziali lo abbiamo già provato, e non ha funzionato.
Le rivendicazioni uscite dai tavoli di non una di meno ci paiono in alcuni casi fuorvianti quando non proprio del tutto reazionarie. Questo movimento a nostro avviso manca di un programma anticapitalista organico, manca della voglia di rovesciare quel sistema che ha prodotto il patriarcato e che continua a produrre i fenomeni di sfruttamento e tutti i vari fenomeni di oppressione di genere che noi tutti oggi conosciamo.
La stessa violenza di genere non è un prodotto esclusivamente culturale ma è un prodotto economico e culturale. L’oggettificazione femminile, che è all’origine della violenza ed è così comune e accettata nella nostra società, esiste perché le donne sono state e sono una merce, una merce che viene venduta, comprata e sfruttata con molteplici modalità.
Il dibattito sulla prostituzione ne fornisce un esempio. Alcune nella galassia dei femminismi sono convinte che legalizzare lo sfruttamento della prostituzione (perché la prostituzione già legale in Italia) significa dare la possibilità alle donne che la esercitano di autodeterminarsi. In realtà a nostro modo di vedere dà solo la possibilità a chi le sfrutta di arricchirsi legalmente. E vendere il proprio corpo per noi non è autodeterminazione: significa accettare il sistema che ci impone di essere una merce. Battersi per legalizzare uno sfruttamento significa non voler abbattere tutti gli altri. Noi andiamo nella direzione opposta: noi vogliamo abbattere ogni forma di sfruttamento che non sia solo quello prostitutivo, ma che sia anche quello della raccoglitrice di pomodori, quello della badante, quello dell’operaia di fabbrica e anche della casalinga costretta a prestare manodopera non retribuita. Abolire ogni forma di sfruttamento non è possibile lavorando solo ed esclusivamente sul piano dell’oppressione di genere e sul piano della riforma culturale, né perdendosi in quelle dicotomie da stadio, legalizzatrici vs abolizioniste, pro o contro GPA, che disperdono le nostre energie, ci fanno perdere di vista il quadro generale e di certo non impensieriscono il capitalismo.
L’oppressione di genere, esattamente come lo sfruttamento del lavoro, si risolve a nostro modo di vedere con un’unica soluzione, ossia quella di rivoluzionare il sistema economico (e di conseguenza sociale e culturale) che produce entrambi i fenomeni. Cambiare sistema economico non significa dare a tutti il reddito di cittadinanza come un’elemosina di Stato, al posto dell’autodeterminazione e dell’indipendenza che deriva dal lavoro. Cambiare sistema economico significa mettere nelle mani dei lavoratori e delle lavoratrici la proprietà dei mezzi di produzione. Né più né meno, perché questo vogliamo, parliamoci chiaro, siamo un collettivo marxista rivoluzionario. Smascheriamo la truffa di un reddito di cittadinanza che è una scusa per non toccare i rapporti tra sfruttati e sfruttatori e parliamo invece di indennità di disoccupazione, che si basa su presupposti ben diversi.
Noi vogliamo in sintesi mettere al centro del discorso di classe e di genere le donne proletarie, quelle sfruttate. Per questo io forse oggi abbasserò il tenore degli interventi e forse correrò il rischio di banalizzare, parlando di cose molto pratiche e quotidiane, ossia di quello che per noi occorre fare per mettere in piedi una tendenza classista, non solo nel rapporto con Non una di meno, ma per incidere nelle rivendicazioni femminili a tutto tondo.
Per noi è importante abolire tutte le leggi sul precariato, come rivendicazione transitoria, estendere a tutti e tutte l’articolo 18, ripristinare i diritti di lavoratori e lavoratrici perché sono queste le misure padronali che rendono veramente possibile l’autodeterminazione di tutte e tutti. Vogliamo avere un lavoro, non del reddito. Vogliamo che donne e uomini abbiano una parità salariale, oggi sappiamo che le donne percepiscono il 70% del salario di un uomo, ma non solo perché è giusto, ma perché sappiamo anche che la disparità salariale serve al padronato come leva per abbassare i salari di tutti.
Vogliamo anche che si smetta di considerare la donna un servizio pubblico di cui è normale usufruire, quindi vogliamo un diverso sistema economico in cui lo stato si prenda in carico tutti quei compiti di cura che adesso sono affidati perlopiù alle donne (anziani, bambini, persone non autosufficienti). Per fare questo chiediamo soprattutto un’inversione di tendenza nel trend delle privatizzazioni che sta interessando tutti gli Stati capitalisti negli ultimi anni. Il progressivo smantellamento di qualsiasi Stato sociale, di qualsiasi servizio è a carico delle donne e la nostra vita è peggiorata sensibilmente. Quindi chiediamo, senza tentennare, la completa nazionalizzazione dei servizi sociali.
Chiediamo l’aborto libero gratuito e garantito e chiediamo con chiarezza l’abolizione (e non la regolamentazione) dell’obiezione di coscienza, a differenza di quanto a volte è successo in alcuni momenti nel del percorso di Non una di meno. Si tratta di un’obiezione di coscienza totalmente illegittima, da eliminare in toto perché, a differenza delle altre forme di obiezione come quella al servizio militare, le conseguenze non ricadono sull’obiettore, ma sul corpo di un’altra persona. La coscienza non vi ha nulla a che vedere, in questo caso si tratta di un modo barbaro, oscurantista e vergognosamente bigotto di imporre la propria morale ipocrita ad altri, anzi ad altre, di determinare la salute e la vita riproduttiva delle donne a proprio piacimento.
Vogliamo la fine dell’erogazione di soldi pubblici nelle casse di enti privati e soprattutto degli enti ecclesiastici, vogliamo smettere di finanziare direttamente e indirettamente una confessione religiosa che fa dell’oppressione femminile uno dei suoi capisaldi.
Pretendiamo il diritto alla casa, per tutti ma a maggior ragione per le donne, che in questa società si trovano spesso portare il peso della maternità. Come si fa? Utopia? No, si espropria, si espropriano i grandi patrimoni immobiliari, come quelle delle banche e del clero, e si deve avviare un grande programma di edilizia popolare.
Si parla poi tanto in questi giorni di immigrazione. Il dibattito è a livelli di orrore che sono difficili da definire. Noi chiediamo l’apertura di corridoi umanitari e la completa accoglienza di chi fugge da fame e guerre che la politica imperialista del capitalismo ha causato.
Siamo dell’idea che chi sfrutta una donna sfrutta tutte, e di conseguenza a vogliamo l’abolizione delle attuali forme di schiavismo a cui sono sottoposte le donne migranti e non solo. Si tratta di lavoratrici che molto spesso operano o in nero in condizioni lavorative degne di un romanzo di Dickens. Vogliamo abolire la prostituzione, ma non fermarci all’abolizionismo. Siamo convinte che la prostituzione sia una delle più bestiali forme di oppressione di genere. Io non voglio una società in cui è tranquillamente possibile andare a comprare una persona, perché nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di vittime di tratta, quindi di uno stupro legalizzato dal denaro. Non mi si parli nemmeno di libera scelta perché in un regime capitalista la libera scelta non ce l’ha nessuno, non ce l’ha l’operaio che sta in fonderia, esattamente come non ce l’ha la prostituta. Siamo ben lontani da una società in cui fare sesso per denaro è una simpatica perversione, anzi è kink. La libertà di scelta esiste quando le opzioni sono tutte disponibili.
Allo stesso modo riteniamo che non sia possibile abbattere la violenza machista e maschilista semplicemente potenziando centri di violenza, che pure è una misura giustissima o ricevendo soldi dal governo per ampliare il numero di strutture in cui queste donne possono trovare rifugio. Quella dei femminicidi è una piaga sociale esattamente come quella dei morti sul lavoro, un fenomeno che tutti più o meno danno per scontato, che tutti più o meno leggono con un occhio distratto sul giornale, è morta una donna, è morto un operaio, vittime calcolate e scontate di questo sistema. Sono perdite strutturali.
Sono entrambi fenomeni generati direttamente dal sistema economico che regola la società. La donna è un oggetto perché questa società è una società basata sulle merci, sui profitti, e questo caposaldo è stato interiorizzato, rafforzato da millenni di cultura e religione. La donna è un oggetto perché esistono sfruttatori e sfruttati. La cultura non si crea mai in un vuoto pneumatico, la cultura è il riflesso dei tempi, dei rapporti economici che regolano la società e della lotta tra le classi.
Questo è a grandi linee la nostra ricetta per unire femminismo e lotta di classe. Se il femminismo non si coniuga con le rivendicazioni di classe non farà altro che incanalare le rivendicazioni femminili in un binario morto, come è già avvenuto in passato.
Sta prendendo piede una sorta di femminismo individualista, spesso solitario, che fa della rivolta a personale un gesto estetico, sicuro non è in grado di impensierire il patriarcato. Molto spesso purtroppo la componente corporativa, di classe, collettiva del femminismo passa in secondo piano rispetto alla rivoluzione individuale. La rivoluzione individuale è facile, si può fare dietro una tastiera, la rivoluzione femminista collettiva presuppone il partire da un’ottica di classe perché no, io non voglio salvare tutte le donne, no io non voglio salvare Emma Marcegaglia dagli orrori del patriarcato, non ho bisogno di battermi perché la moglie di Fini che gira con la pistola abbia più diritti. È ora di ripartire dalla radice, ossia battersi perché non ci siano più sfruttati e sfruttatori, solo allora si potrà creare una cultura e una società femminista nel suo senso più concreto, nel senso di egualitaria.