Dove nascere femmina è una condanna a morte
di Nikita
Nei Paesi dell’area mediterranea la donna è ancora discriminata, sempre subordinata, spesso aggredita verbalmente e/o fisicamente, insomma vive una non facile condizione. Nei Paesi islamici le donne non possono fumare, guidare, viaggiare o andare al ristorante da sole. In alcuni di questi Paesi non possono neppure studiare, pena la morte. Non a caso Khaled Hosseini nel suo meraviglioso romanzo “Mille splendidi soli” fa rimpiangere il giogo russo ad una delle protagoniste che vive la terribile realtà dell’Afghanistan dei talebani. La religione ha fatto dimenticare la storia: Maometto sposò una donna più anziana di lui, Kadija, già due volte vedova, ricca mercantessa ed imprenditrice audace. Fu lei a supportarlo quando, a seguito della visione dell’arcangelo Gabriele, egli credette di essere impazzito ed invasato dai maligni jinn. Fu lei a spingerlo a fondare la nuova religione e a fare proselitismo. Certo non una donna succube e subalterna. Ma l’Islam, si sa, è il “nemico” per cui l’indignazione è lecita.
Ci sono però altri Paesi con cui Italia e UE intrattengono strettissimi e proficui rapporti economici in cui nascere donna non è solo essere figlia di un dio minore, ma equivale ad un destino di morte.
In Cina, quando Mao Tse Tung definì la donna “l’altra metà del cielo” sembrò che, oltre a tanta poesia, fosse chiaro al mondo che nell’universo comunista la donna era “altro” dall’uomo, ma che, nella diversità, era sancita anche la complementarietà e la pari dignità. Pochi anni dopo la morte di Mao, nel 1979, però il pragmatico Deng Xiaoping, nell’ampio quadro della riforma dell’economia cinese, fece varare la legge sul figlio unico (Legge eugenetica e protezione salute) che decretò la morte di milioni di bambine cinesi. Le donne incinte subirono minacce e aborti selettivi, delle bambine che riuscirono a nascere, molte furono vittime di infanticidi, altre vennero vendute come schiave, altre ancora finirono negli orfanotrofi. La reporter americana Norma Mayer le descrive come “scheletri foderati di pelle bianca che dondolavano nei letti putridi. Gambe e braccia storte come radici impazzite”. Quelle fortunate, quelle che non venivano buttate via come bambole rotte, rimasero in famiglia, ma come “bambine fantasma”, mai registrate all’anagrafe e quindi nell’impossibilità di avere assistenza sanitaria, andare a scuola, ottenere un lavoro regolare. Persone che non esistevano, fantasmi appunto. E questo orrore si è perpetrato fino al 2016, anno in cui la politica del figlio unico è stata ufficialmente abolita. I numeri sono spaventosi: da 25 a 40 milioni di bambine inesistenti, morte o scomparse, tanto che oggi i giovani maschi cinesi, soprattutto nelle zone rurali, prendono mogli nordcoreane o cambogiane perché non ci sono abbastanza donne in Cina. E perché da quei Paesi le donne fuggono da fame e violenze.
Naturalmente mentre nelle classi povere si sopportava questa mostruosità, le classi agiate trovavano escamotages che consentivano di aggirare il divieto, ad esempio registrando un figlio in Cina e una figlia ad Hong Kong. E naturalmente queste atrocità erano universalmente note, ma UE e USA hanno preferito bypassarle privilegiando la vantaggiosa partnership con la straordinaria espansione dell’economia cinese.
Solo Cina sul libro nero? No. Purtroppo. Anche in India, altro Paese dal PIL in crescita esponenziale, la situazione è altrettanto tragica. Rita Banergji, scrittrice e fotografa indiana, fondatrice del movimento Fifty Million Missing, parla di 50 milioni di donne che mancano all’appello perché uccise in molteplici, orribili modi: infanticidi. Fame, maltrattamenti, aborti ripetuti, delitto d’onore, linciaggio delle “streghe”. Per mettere fine alla piaga dell’aborto selettivo di genere effettuato dopo l’ecografia fetale, questa pratica è stata proibita per legge, ma anche in questo caso compiacenti e costose cliniche private frequentate da ricchi eseguono ecografia, amniocentesi e, se il feto è femmina, aborti.
Un proverbio indiano recita che “avere una figlia femmina è come innaffiare il giardino del vicino”: non produce ricchezza, rappresenta un costo, impoverisce. Dunque in India, come in Cina, il genocidio delle donne è collegato a problematiche di carattere economico, ma qui è associato alla possibilità delle famiglie di fornire la dote tradizionale alle figlie. Nel sud del paese la seconda figlia femmina è definita “destinata alla fossa” e, nelle zone rurali, benché proibita per legge fin dalla dominazione inglese, è ancora in vigore la pratica del sati, il suicidio della vedova sulla pira funebre del marito: la vedova infatti non ha modo di mantenersi e, qualora abbia diritto ad una pensione, essa rappresenta un costo “inutile”, non produttivo. Perciò non solo tradizioni patriarcali e sessiste stanno alla base dell’eliminazione di genere, ma una pratica diffusa, legata a filo doppio agli interessi economici che colpisce sempre e comunque i ceti inferiori meno protetti. Dunque la lotta deve essere non solo di classe, ma anche di genere. Il mutamento delle condizioni sociali non può essere svincolato dall’emancipazione femminile, proprio perché il rovesciamento dei rapporti di forza economici deve tradursi specularmente in un cambiamento sostanziale della condizione della donna. Solo ribaltando gli equilibri dei poteri finanziari si potrà sciogliere l’abbraccio esiziale in cui sono stretti gli ultimi nella scala sociale e, ultime tra gli ultimi, le donne.
Solo così potrà finalmente colorarsi d’azzurro l’altra metà del cielo.