Il welfare che non c’è: la scuola e gli asili
Quando si parla di donne e di welfare occorre considerare non solo l’obiezione di coscienza e il mondo del lavoro, ma anche la miriade di servizi negati, la cui assenza di fatto relega le donne dentro casa.
Consideriamo ora le riforme che hanno colpito la scuola, compresi gli asili nido. Molto brevemente premettiamo che i primi furono costruiti negli anni Venti per esigenze di produzione, cioè per consentire alle donne proletarie di lavorare, tant’è che erano ubicati nelle fabbriche e svolgevano una funzione esclusivamente assistenziale; la loro diffusione era ovviamente collocata principalmente al centro-nord nel cuore del mondo industriale. È solo alla fine degli anni Sessanta che viene riconosciuto l’asilo ad indirizzo pedagogico ed educativo non più desinato solo alle donne lavoratrici.
Gli asili non potevano più essere solo cautelativi quindi nel 1975 gli asili aziendali furono chiusi, ma in questa data avrebbero dovuto essere pronti 3800 nuovi asili sul territorio di cui il Parlamento approvò l’apertura nel 1971, ma che non furono mai costruiti.
Anzi, negli anni Ottanta alcuni asili comunali vennero chiusi per insufficiente numero di bambini e riformarono le classi portando il numero di bambini da venti a trenta per classe con una sola insegnante.
Mentre gli asili venivano riconosciuti come un diritto per tutti i bambini, si tagliava già sulle strutture pubbliche, si continuava a finanziare quelle cattoliche e si cominciava a finanziare gli asili privati con caratteristiche diverse da quelli gestiti dalla chiesa.
Nel 1997, il Parlamento approva la legge n. 285 “Disposizioni per la promozione di diritti ed opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” con relativo stanziamento economico per il triennio 97/99, promuove progetti per i bambini da zero a tre anni con caratteristiche innovative e sperimentali, amplia la possibilità di gestione ad organizzazione di famiglie in autogestione, associazioni o cooperative.
Lo scopo di questa legge e dei relativi finanziamenti doveva essere la promozione della qualità di vita, sviluppo, realizzazione individuale e socializzazione dell’infanzia e dell’adolescenza privilegiando, esattamente come è accaduto per le leggi sugli anziani, la famiglia naturale, adottiva e affidataria, in totale contraddizione con il riconoscimento dell’asilo quale diritto di tutti i bambini in quanto ambito educativo, di sviluppo psicopedagogico e socializzazione difficilmente realizzabili in un contesto famigliare, senza contare che in tale contesto il carico di responsabilità è enorme e assai difficile possedere gli standard di sicurezza previsti dalla legge.
Ma vediamo di arrivare al nocciolo della contraddizione. Innanzitutto all’epoca dell’approvazione di questa legge il fenomeno immigratorio era già ad altissimi livelli per cui sarebbe stato sufficiente riaprire gli asili che erano stati chiusi e invece no, si è preferito finanziare quelli privati, cattolici, in gestione guarda caso alle cooperative e quelli auto-organizzati nelle famiglie. Detto questo la situazione attuale degli asili pubblici è diventata questa: concentrazione delle strutture quasi esclusivamente nel centro-nord dove lavorano la maggior parte delle donne, ma se l’asilo è stato riconosciuto come un diritto di tutti, al sud sono forse figli di un dio minore? Non hanno il diritto all’educazione psicopedagogica? Le strutture sono insufficienti e non soddisfano la domanda sul territorio, e ancora, gli orari non soddisfano le esigenze delle donne che lavorano, almeno delle operaie il cui orario di lavoro è stato dilatato sempre più dalle leggi europee e nazionali sul lavoro in nome di un sempre maggiore profitto per le aziende.
Si è scaricato parte del servizio nuovamente sulla famiglia proletaria in quanto la famiglia borghese può permettersi di lavorare meno ore, o una babysitter, o semplicemente un asilo privato con orari più idonei.
Un altro problema è rappresentato dalle rette, troppo alte per una famiglia operaia, quando una retta rappresenta la metà di un salario a conti fatti si va a lavorare quasi gratis, a molte donne conviene economicamente starsene a casa, con buona pace dell’asilo come diritto di tutti i bambini in quanto ambito di sviluppo psicopedagogico e socializzazione e con buona pace anche dell’indipendenza e libertà delle donne che ancora una volta vengono usate come strumenti di riproduzione e principale soggetto sociale di educazione e crescita della prole.
Ma è bene specificare che questa discriminazione sessuale colpisce in larga parte le donne proletarie che non possono permettersi di pagare rette così alte, né di licenziarsi per libera scelta e quindi il maschilismo di cui è intrisa questa società capitalista è funzionale solo al profitto dei privati, di cui lo stato borghese ne è il braccio burocratico.
Il maschilismo è lo strumento con cui il potere sfrutta le donne proletarie.
Sia chiaro: facendo della discriminazione di genere una questione puramente etica si sposta l’attenzione del problema su un terreno sterile dal quale nessuna lotta potrà mai nascere.
Mantenendosi invece sul piano della lotta, noi riteniamo che un ottima soluzione possa essere quella non tanto di aumentare l’orario di chiusura degli asili, ma di lavorare tutti e lavorare meno ore così da poter dedicare più tempo ai figli ed a noi stessi, di tagliare i finanziamenti alle scuole private, tutte, comprese quelle cattoliche ed investire negli asili e scuole pubbliche.